Il massacro di Domenikon

Il massacro di Domenikon

Italiani brava gente, un mito inerente al carattere del soldato italiano durante la seconda guerra mondiale che si è espanso nel dopoguerra facendo ritenere soldati e civili vittime della guerra e in fondo, non nazionalisti, razzisti o perfino crudeli come i nazisti. Tale affermazione, però è vera?

I fatti e gli eventi storici smentiscono molto dettagliatamente tutto ciò. Non significa certo che i soldati e il popolo, erano da considerare al pari dei nazisti, ma in questo caso la realtà da esplorare non è da scegliere tra i colori bianco o nero, ma è in mezzo, sul grigio.

I partigiani, la resistenza armata contro i repubblichini, i soldati che “travisavano” alcuni “ordini speciali” da Roma o anche la Delasem sono esistiti, questo è vero, ma la complicità con i nazisti non è iniziata con la nascita della repubblica Salò.

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Ed è di pochi giorni fa, infatti, un nuovo inizio di esplorazione di questa realtà, più precisamente riguardo al massacro di Domenikon in Grecia eseguito a opera dell’ esercito italiano nel ’43.

Tra il 16 e il 17 febbraio 1943, durante l’occupazione del nostro Regio Esercito in Grecia, gli “italiani brava gente” si trasformarono in feroci aguzzini: accadde in quella che ancora oggi tutti i greci ricordano come la Strage di Domenikon.

Un eccidio che costò la vita a 150 abitanti di un villaggio nel nord della Tessaglia, uomini e donne, anziani e ragazzi, ‘colpevoli’ di essersi trovati a vivere troppo vicino (a mezzo chilometro) al luogo di un attentato dei partigiani greci ad una colonna militare tricolore. E’ un episodio poco noto della guerra di Mussolini in Grecia, ma è una storia che promette di coinvolgere presto l’Italia in un processo che farà clamore.

La morte dei soldati e la furia distruttrice 

L’assalto della resistenza ellenica portò alla morte di nove soldati italiani, o meglio di nove camicie nere (unità della guardia personale di Mussolini) della Divisione ‘Pinerolo’.

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Per rappresaglia, su ordine del comando generale italiano in Grecia, una colonna guidata dal tenente colonnello Amedeo De Paula iniziò i rastrellamenti con furia distruttrice: i militari italiani incendiarono il piccolo villaggio greco e, tra la mezzanotte e le tre del mattino, passarono per le armi tutti i suoi abitanti maschi, eccetto i bambini: vittime furono tutti gli “uomini validi” dai 14 agli 80 anni, e almeno due donne, freddate nei loro letti perché, malate, non potevano essere evacuate dal paese in fiamme.

A questo punto, è logico fare obiezioni affermando magari che le leggi di guerra dell’epoca lo permettevano o magari aggiungere che a Roma non sapevano nulla di tutto ciò. Obiezione normale, ma priva di fondamento!

La rappresaglia venne ordinata subito e i documenti testimoniano come di tutto l’orrore perpetrato la catena di comando in Italia fosse informata quasi in presa diretta sino ai livelli più alti che ritennero “irrevocabile” la “lezione salutare“. 

In merito alle leggi di guerra, cito di seguito gli art. 22 e 23 della Convenzione dell’Aja del 1907 ancora in vigore all’epoca dei fatti:

  • Art. 22: “La guerra deve essere condotta solo con mezzi che non siano inutilmente crudeli.”
  • Art. 23:
  1. Usare la bandiera di trincea, la bandiera bianca, la bandiera rossa, il simbolo della croce rossa o altri segni distintivi di soccorso in modo che possano essere confusi con i segni legittimi di una tregua o di una soccorso.
  2. Impiego di veleno o armi chimiche.
  3. Uccidere, mutilare, saccheggiare o danneggiare città, villaggi, abitazioni e beni.
  4. La pratica della rappresaglia è strettamente regolamentata e, in nessun caso, deve essere esercitata in modo che colpisca la popolazione civile o cause danni eccessivi rispetto agli obiettivi militari.
  5. Escludere l’uso di ferite intenzionali o di trappole mortale

Un delitto mai punito 

Per i contadini trucidati a Domenikon nessuno ha pagato. Un delitto mai punito. Divenuto oggetto di due inchieste della Procura militare senza condanne, i cui incartamenti non ebbero esito penale, inizialmente in cambio dell’impunità garantita da Roma a criminali nazisti colpevoli di stragi in Italia, oggetto di 695 fascicoli giudiziari insabbiati e sepolti in un armadio con le ante rivolte al muro a palazzo Cesi-Gaddi, sede romana di diversi organi giudiziari militari.

Sul caso Domenikon ci furono anche una terza inchiesta militare, l’inutile approfondimento di una commissione parlamentare italiana istituita nel 2003 e un’altra indagine della magistratura ordinaria ellenica, a Larissa, dopo la prima finita con l’archiviazione.

L’armadio della vergogna venne riscoperto nel 1994 e quel caso, venuto alla luce e denunciato due anni dopo dal settimanale L’Espresso rimise in primo piano l’eccidio in Tessaglia e riaprì anche la discussione sulla strage di Domenikon.

Da allora un gruppo di greci discendenti dei sopravvissuti all’eccidio e di parenti delle vittime cerca inutilmente di vedersi riconoscere il torto, di ottenere giustizia da Roma. Sforzi fino a quattro giorni fa vani.

Fino a quella data appunto, perché una sentenza della magistratura greca le cui motivazioni saranno note entro un paio di settimane riaprirà la strada a una causa civile per risarcimento danni contro lo Stato Italiano.

Paradossalmente si tratta di una sentenza di archiviazione (ancora una volta, anticipano fonti elleniche, perché lo Stato italiano si oppone a che i responsabili dell’eccidio vengano processati all’estero), ma sarà importante la chiusura del caso perché, non potendosi tenere più processi in contemporanea per gli stessi reati, archiviata la causa greca potrà iniziare quella in Italia.

“Ma voi italiani volete che giustizia sia fatta?”

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Stathis Psomiadis a Domenikos

“Sono oltre quarant’anni che lottiamo per far venire a galla la verità anche nel vostro Paese”, dice al Corriere della Sera il professor Stathis Psomiadis, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Domenikon.

Aggiunge poi: “adesso potremmo essere vicini davvero ad una svolta. Ne parleremo domenica alle celebrazioni dell’82esimo anniversario della strage fascista, qui a Domenikon”.

La madre di Psomiadis è l’ultima dei civili sopravvissuti ad aver perso un parente di primo grado: suo padre (nonno del professore) fu eliminato nella fucilazione di massa a Kafkakia, la radura vicina al bosco di Domenikon dove furono uccisi la maggior parte dei civili vittime della feroce rappresaglia.

Ora potrebbe ripartire l’iter per un procedimento giudiziario intentato da privati greci contro Roma. E questo nonostante da anni lo Stato italiano opponga alle richieste elleniche il principio della “eterogiudizialità”, ovvero la norma del diritto internazionale che non consente che uno Stato sia giudicato da tribunali di un altro Stato estero.

La pretesa situazione etero giudiziaria farebbe sì che la giustizia italiana possa opporsi alle richieste di risarcimenti da parte di Stati esteri per crimini di guerra.

Eppure, evidenzia Psomiadis “la vostra Corte Costituzionale ha stabilito l’opposto ben dieci anni fa. Ma io mi chiedo: i cittadini italiani lo sanno? E la moderna società italiana vuole che giustizia sia finalmente fatta?”.

Risale al 22 ottobre 2014 la decisione con cui la Consulta ha stabilito che le disposizioni del decreto legislativo italiano del 2013, che garantivano la validità del principio di l’eterogiudizialità, “non si applicano ai casi di crimini contro l’umanità“.

In sostanza secondo Psomiadis tutto ciò vuol dire che, “la magistratura italiana dichiara il rispetto dei diritti umani fondamentali come superiore a qualsiasi altro perseguimento, nega l’eterogiudizialità, cioè l’immunità dello Stato, quando si tratta di crimini contro l’umanità e consente ai cittadini che hanno subito le atrocità naziste e fasciste e alle loro famiglie di rivolgersi alla magistratura per trovare giustizia“.

Il futuro del caso

Fino a quattro giorni fa, di fatto, la storia ha seguito un’altra strada. Dopo un iniziale impeto per avere giustizia da Roma, tra il ‘44 e il 1951, la mancata punizione dei criminali di guerra italiani e l’accordo con il governo greco (che inizialmente aveva insistito per processare i responsabili in terra ellenica) per la non consegna dei criminali di guerra italiani, contribuì all’oblio nei decenni. 

Nel giugno 2018, su richiesta del pm, il gip militare ha archiviato anche la terza inchiesta sull’eccidio “perché i responsabili sono tutti morti ormai o rimasti ignoti“. 

Il primo tentativo fu dell’allora procuratore militare di Roma Antonino Intelisano: cercò di far luce su tutti gli eccidi degli italiani in Grecia e nei Balcani. Ma non vennero trovati potenziali imputati sopravvissuti e il procedimento viene archiviato nel 2010. 

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Adesso, però, la situazione sembra essere cambiata e molto probabilmente, se come noi che abbiamo processato la Germania in passato per alcuni crimini di guerra commessi in Italia, forse anche questo processo potrà avere luogo.

Si farebbe obiezione a questo punto, com’è normale che accada, ma la vera domanda da porsi è: vale davvero la pena continuare a dire Italiani brava gente, se di fatto massacri, uccisioni, amputazioni sono stati commessi anche da soldati italiani?

Distruggere tale mito porterà sofferenze, è inevitabile, ma è giusto dover riscoprire il passato, non solo per dare giustizia alle vittime, ma anche per continuare la pulizia all’onore dell’ esercito italiano e nei confronti dell’Italia, poiché una Norimberga italiana non c’è mai stata.

A cura di Tommaso Bernardini

Fonti:

La guerra di Mussolini: verso un nuovo processo per la strage di Domenikon. Nel ’43 soldati italiani trucidarono 150 civili | Corriere.it

Domenikon 1943, l’eccidio dimenticato: quando a commettere la strage furono gli italiani- Corriere.it

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